Non ci siamo mai accorti di esser donne. Non abbiamo mai, fino in fondo, compreso la fatica che è costata a chi donna si è sentita realmente. C’è ancora domani! Domani, domani al risveglio, ci penserò mentre metto su la caffettiera e preparo il pranzo o la cena.
Giuro che domani mi sentirò più donna mentre raccolgo i capelli in un elastico di seta o mentre stendo sulle labbra l’ennesimo rossetto che ho comprato in omaggio alla mia femminea estetica. Sceglierò con cura il vestito più bello e scenderò in strada per passeggiare alla luce del sole.
Farò tutto questo domani, per onorare il tempo che è passato, per ricordare la donna che sono stata ma che non ho conosciuto. Per fortuna che “C’è ancora domani” a ricordarmi che il riconoscimento dei miei diritti e della dignità non è matrice di un gratuito e innato riconoscimento.
Niente slogan da corteo, nel nuovo film dell’attrice e regista Paola Cortellesi, nessuna spasmodica esaltazione o estremizzazione della donna. Solo genuinità… il frutto ancora acerbo di una lotta durata anni, di un patimento represso con volontà, di una conquista lenta a guadagnarsi ma veloce a diffondersi.
Mi luccicano gli occhi a vedere me, donna, riflessa nella vita di un’altra donna. Tiro un sospiro di sollievo “Potevo esserci io al suo posto!” mi dico mentre si susseguono le immagini di una storia che non è la mia ma che pure mi appartiene.
Io però sono seduta su una comoda poltrona di un cinema, alle 22,00 di sera, con accanto una delle mie più care amiche… I miei legami di natura affettiva non comportano l’imposizione di regole e coprifuochi, posso decidere in libertà di intrattenermi in compagnia della gente che scelgo. C’è solo la mia etica, rispondo solo alla mia volontà.
Dall’altra parte invece c’è lei, la protagonista del film, una moglie che sgobba dalla mattina alla sera per guadagnare poche lire, che accudisce i figli, che prepara il pranzo e la cena, che fa iniezioni a domicilio, che ripara ombrelli, che gestisce sottovoce le precarie finanze di un’economia familiare in dissesto. Lei, Deilia, malmenata, denigrata, umiliata, ha ancora la forza di credere e dire sottovoce “C’è ancora domani!”.
L’ottimismo mi lascia sbigottita e un po’ attonita… Delia ci crede e ci deve credere per la salvezza di sua figlia e delle donne come me.
Alla stessa maniera, mi inquietano le ferite inferte sul corpo della protagonista che si rimarginano a colpi di ballo a due ma che dirompono prepotentemente nella sua pelle come segni inequivocabili di una sofferenza taciuta ma fin troppo evidente.È il maggio del 1946, di lì a poco, Delia sarà chiamata per la prima volta ad esprimere il proprio diritto di voto.
Le riprese, vivide di realismo, immortalano uno spaccato di storia cruciale.
“Ci sono anch’io!” dicono le donne, sfoggiando e sventolando la carta d’identità: inequivocabile attestazione della loro esistenza.
Delia e le altre donne si dirigono alle urne sfoggiando una fierezza leonina che preoccupa (non poco) taluni uomini.
Questo è il nostro tempo. Non c’è più domani, è finita l’attesa.
È cominciato il futuro.