In Italia abbiamo bisogno di una legge contro l’omotransfobia e le violenze di genere? Apparentemente No, considerato:
- che nel nostro Paese sono riconosciute con legge le unioni civili tra persone dello stesso sesso;
- che gli interventi chirurgici per il cambio di sesso sono previsti nei Livelli essenziali di assistenza del Sistema Sanitario Nazionale;
- che da qualche mese anche la terapia ormonale per le persone trans è gratuita e a carico del SSN;
- che quella italiana appare come una società aperta e tollerante.
La cronaca quotidiana, al di là del politically correct, racconta altro.
Ciò che appare, non è ancora quel che dovrebbe essere. Quindi, senza infingimenti, la risposta alla iniziale domanda retorica è Sì: abbiamo bisogno di una legge contro l’omotransfobia e le violenze di genere.
È in discussione in Parlamento da alcuni mesi. La camera ha già approvato il testo il 4 novembre scorso. La legge Zan (dal nome del suo primo firmatario) è ora in discussione al Senato.
Perché è necessaria una legge?
«Perché – come bene ha sintetizzato l’artista Tiziano Ferro – è una legge contro l’odio e non toglie libertà a nessuno».
Perché ogni anno si registrano aggressioni verbali e fisiche nei confronti delle persone LGBT*.
L’acronimo sta per “lesbian, gay, bisexual and transexual” – l’asterisco sottintende tutte le altre varianti di genere, sesso e affettività.
A volte viene utilizzato anche l’acronimo LGBTQ, dove la ‘Q’ sta per queer (termine utilizzato in senso ampio per indicare le soggettività non eterosessuali). In quell’asterisco, da persone di buona volontà, di apertura mentale, tolleranti, tutti dovremmo riconoscerci.
Accade invece che ogni anno in Italia si registrano decine e decine di violenze contro le persone LGBT*: 119 tra il 2017 e il 2108; 187 tra 2018 e 2019; 134 tra il 2019 e il 2020 (il dato è fermo a giugno). Il report viene reso noto ogni anno da Arcy in occasione della giornata mondiale contro l’omotransfobia, e tiene conto solo di episodi registrati dalla stampa, ignorando un sommerso di fatti mai venuti, e che mai verranno, alla luce.
Maria Paola, vittima dell’omotransfobia
Perché la violenza dettata dall’omotransfobia emerge, purtroppo, solo quando raggiunge la soglia di non ritorno dei reati gravissimi contro la persona, come accaduto ad Acerra, nel napoletano, nel settembre scorso. «Frequentava un trans, era infetta» è l’assurda motivazione con la quale, Michele Gaglione, 30 anni speronò il motorino in sella al quale c’erano la sorella Maria Paola con il compagno, Ciro Migliore, transgender (biologicamente donna ma con identità maschile).
Maria Paola, 18 anni, rimase uccisa nella caduta. La magistratura giudicherà la responsabilità di Michele, se c’era o no la volontà di uccidere. Rimane l’orribile dato di cronaca in cui, anche se in misura diversa rispetto alla sorella Maria Paola, anche Michele Gaglione è vittima.
Vittima dell’odio verso la diversità, vittima dei canoni di “normalità”.
Non appaia la condizione psicologica di Michele un’eccezione. Per comprendere come si possa essere, più o meno inconsapevolmente “carnefici” basta andare a leggere le testimonianze di quotidiana discriminazione sulla piattaforma dilloagiulia.it. L’invito della piattaforma è «trasforma gli abusi in un contributo per ottenere giustizia: dilloagiulia.it continuerà a raccogliere testimonianze da tutta Italia, fino a quando saranno troppo numerose per poter essere ignorate».
Una risoluzione del Parlamento Europeo del 2006, rimasta finora inascoltata nel nostro ordinamento, definisce l’omofobia come «una paura e un’avversione irrazionale nei confronti dell’omosessualità e di lesbiche, gay, bisessuali e transessuali, basata sul pregiudizio e analoga al razzismo, alla xenofobia, all’antisemitismo e al sessismo».
Anche la Corte di Strasburgo ha ribadito più volte la necessità che gli Stati si attivino per tutelare le persone appartenenti alla comunità LGBT*, attraverso una pluralità di misure, tra le quali rientra senza dubbio il contrasto, dal punto di vista penalistico, all’omofobia ed alla transfobia.
A questo punta la legge Zan, a modificare un paio di articoli del nostro codice penale, così che
«l’ordinamento italiano – si legge nella relazione introduttiva del disegno di legge – si potrà dotare di uno strumento di protezione della comunità LGBT, intesa come collettività composta da soggetti che possono essere particolarmente vulnerabili, in linea con una visione più moderna e inclusiva della società e nel tentativo di realizzare quella pari dignità che la Costituzione riconosce a ciascuna persona».
Scrive Alberto Parisi, artista, intellettuale e attivista per i diritti LGBT: «Non di luoghi nei quali nascondersi avrebbero bisogno gli omosessuali italiani. Bensì di luoghi aperti nei quali poter vivere serenamente, nel contatto con tutte le componenti della società italiana. Sono queste le migliori esperienze degli ultimi anni che sono nate nella penisola. Nelle gay street e nei gay village nati nelle città italiane. Luoghi aperti alla cittadinanza e nei quali gli eterosessuali fanno la fila per entrare, perché l’esistenza di tali luoghi fa bene a tutti. Perché nella perdita del falso moralismo e nell’accettazione della diversità vivono tutti meglio».
Per vivere meglio dovremmo tutti metterci idealmente dalla parte di quell’asterisco alla fine dell’acronimo LGBT*.