La dote e gli accordi prematrimoniali del diritto romano, raccontati da Enzo Tartamella, giornalista, storico e scrittore trapanese, nel suo libro Tabulae Nuptiales, pubblicato da Maroda Editore, piccola casa editrice specializzata in pubblicazioni di alto pregio grafico e tipografico.
“Questo volume – spiega lo stesso autore nella presentazione – è uno spaccato, uno spicchio della grande arancia che è stato l’universo umano della Sicilia; una sola quinta del grande palcoscenico della vita quotidiana del Settecento
I vestiti della sposa, la sua biancheria, il mobilio, i numerosi dipinti presenti in quasi tutte le case, il pentolame di rame e di stagno, gli scaldini per il letto, le casse per conservare il formaggio, le ciocolattiere, i molinetti per macinare il caffè, le sorbetterie, i rari libri, i coltelli per capoliare la carne e ottenerne la salsiccia, i matrimoni clandestini emergono dalle ricerche svolte negli archivi dell’Isola. È la storia minima ricostruita recuperando nomi di potenti, ma anche di tantissimi artigiani, armatori, piccoli e grandi proprietari terrieri, contadini, mercanti e operai, dei loro guadagni e delle loro fatiche”.
Tartamella, come nasce l’idea di costruire un libro sulle tabulae nuptiales?
Nei tanti anni di mie ricerche attraverso Archivi di Stato, fondi delle Secrezie, archivi privati e atti delle Vicarie foranee, principalmente documenti del XVII e XVIII secolo, mi sono imbattuto, anche in atti nuziali ed in alcune doti. Mi sono chiesto: quanti matrimoni di ieri sono uguali a quelli di oggi e quanto questi ultimi sono figli di quelli di ieri? E così nel corso della ricerca si comprende che quello che si credeva molto spesso non è… la verità talvolta ha un altro sfondo.
Perché ha scelto questo titolo?
Un certo numero di lettori, e non sono pochi, predilige un certo garbo nell’esposizione e quindi la fedeltà delle fonti e poi io mi rifaccio, con molta umiltà, alla scuola francese degli annales che si riconduce la ricerca, passo dopo passo, alla documentazione fedele.
Come era costituita la dote delle future spose?
Sostanzialmente si componeva di raubae albae, cioè la biancheria, così denominata fino al ‘700; jocalia, cioè gioielli e poi la parte dell’arredo, qualche tavolo, qualche cassapanca, qualche utensile per la cucina. Il mobilio, nel senso moderno, non esisteva, anche la casa patrizia aveva tre casciabanchi e li dentro si conservava il corredo che era la biancheria della casa. Ed è stato così fino ai primi anni del ‘900.
In che consistevano le raubae albae?
Coperte, lenzuola, federe, camice da notte, tuvagghe di faccia, sottane, la cuffia da notte per la testa. Tutto moltiplicato in ‘addrizzi’ di tre, cioè tre paia di lenzuola, tre camice da notte e così via. Poi c’erano, doti più ricche, con gli addrizzi di sei. Il termine addrizzi, va spiegato, non è propriamente settecentesco ma compare più tardi, nel tardo 800 e nel ‘900. Così come nel ‘700 non c’erano nel corredo le mutande, ché non esistevano. Compaiono nell’800 quelle al polpaccio per coprire, e nel ‘900 cominciano le prime leziosità fascinose dell’intimo femminile: il merletto, il traforo.
Cosa ha evinto dalle ricerche?
La biancheria doveva essere abbondante perché doveva essere usata per tutto il tempo del matrimonio, a meno che le mogli non morissero prima; cosa per altro frequente per le morti da parto. Talché si trovano documenti relativi a uomini che in uno stesso notaio nell’arco di 10 anni si sposano due volte o tre volte. Nel caso di premorienza, se c’erano figli, d’accordo con i parenti della moglie defunta, la dote rimaneva nell’ambito familiare. Se l’uomo si fosse risposato in genere la dote veniva lasciata purché destinata ai figli e dovevano risponderne, sia lui che la nuova moglie. Se invece la donna non moriva la dote serviva per tutto il tempo maritale.